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Per fondare e nutrire l’identità cristiana

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Romano Penna

Davvero opportuna è stata l’iniziativa di Papa Francesco, che con la lettera apostolica Aperuit illis ha stabilito di dedicare ogni anno la III Domenica del tempo ordinario alla celebrazione e divulgazione della Parola di Dio.
La frase latina proviene dal racconto lucano dei discepoli di Emmaus, ai quali si accompagnò il Gesù risorto che «spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). Così viene riportata al centro dell’attenzione la Sacra Scrittura, che, pur segnata da una ibridazione di sensi e di impieghi (come scrive Ilvo Diamanti sul rapporto degli italiani con la Bibbia), mantiene comunque una insostituibile funzione nel fondare e nutrire l’identità cristiana.

Già il concilio Vaticano IIaveva addirittura equiparato le divine Scritture al Corpo stesso di Cristo, poiché «nella Parola di Dio è insita tanta efficacia e potenza da essere sostegno e vigore della comunità credente, e per i figli della chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale» (Dei Verbum § 21): come a dire che non se ne può fare a meno! Di qui il pressante invito a tutti i fedeli affinché abbiano largo accesso alle Scritture anche in base a traduzioni accurate del testo biblico (§ 22), perché la stessa teologia sul fondamento della Parola «sempre ringiovanisce» (§ 24: semper iuvenescit). Quel capitolo si concludeva con l’auspicio che il tesoro della Rivelazione, affidato alla chiesa, «riempia sempre più il cuore degli uomini» (§ 26). E Dio sa di quanto ce ne sia bisogno, visto che, come scriveva Paul Claudel alla fine degli anni ’40, quindi prima del concilio, i cattolici rispettano tanto la Bibbia che se ne tengono a rispettosa distanza! Ma il problema, se ci può confortare, riguarda anche i nostri fratelli protestanti, dato che già una ventina d’anni fa il luterano Gerd Theissen dell’università di Heidelberg scriveva che «lo scarso valore che ha la Bibbia... è segno di un’indebolita vitalità del protestantesimo» e riconosceva invece che una didattica aperta della Bibbia può significare che «col Vaticano II nella Chiesa cattolica la Bibbia è diventata il simbolo di una teologia progressista».

Se poi ci concentriamo specificamente sul concetto di «evangelo», imperniato sul «Dio per noi» manifestato in Gesù Cristo (cf. Rom 8,31-39), risulta all’evidenza la feconda dimensione della parola. Infatti, l’euangelion è per natura sua un annuncio, cioè un evento di comunicazione, già da parte di Gesù (cfr. Mc 1,14) e poi degli apostoli (cfr. At 5,42); perciò è connotato essenzialmente dalla parola pronunciata, la quale trapassa nella parola scritta diventando un inevitabile punto di riferimento reperibile, secondo il linguaggio di Dante Alighieri, «in su le vecchie e in su le nuove cuoia» (Paradiso 24,93), cioè nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Ovviamente non si intende la parola come singolo lemma lessicale, ma come un intero discorso a diffusa destinazione sociale, pur sapendo che anche le singole parole hanno il loro peso, e il rispetto nei loro confronti potrebbe essere espresso pure con la battuta ironica di Umberto Eco, secondo cui «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli»!

Certo, anche il silenzio ha la sua importanza, ma solo in relazione alla parola che da esso appunto emerge come se uscisse da un involucro, tanto che sant’Ignazio di Antiochia definisce Gesù Cristo come «la parola uscita dal silenzio» (Ai Magnesii 8,2). Da un punto di vista religioso, si può ben dire che è possibile pervenire al Divino partendo dal silenzio eloquente del creato e delle sue bellezze, tanto che in un inno a Dio, attribuito a san Gregorio di Nazianzo, si legge: «Tutto quello che esiste fa salire a te un inno di silenzio» (pg 37,507). Anche l’apostolo Paolo riconosce la possibilità di pervenire alla conoscenza di Dio impiegando lo strumento della ragione come fanno i filosofi (cfr. Rom 1,19-20). Ma il Dio del Vangelo giunge inevitabilmente a noi solo con la parola di un annuncio, per di più spiazzante com’è appunto l’euangelion (cfr. 1Cor 1,18-25), la cui originalità, come dice Blaise Pascal, è causa di stupore per i filosofi più di quanto essi con la loro filosofia riescano a stupire le persone comuni.

Nel Nuovo Testamento è Paolo a testimoniare il ricorso più ampio al termine evangelo, che proprio grazie a lui si è imposto nel linguaggio cristiano. Ed egli spiega che il contenuto dell’annuncio è di carattere essenzialmente cristologico, volendo dire che l’evangelo ha Dio come soggetto insieme al Signore Gesù Cristo, diventando così il «vangelo del Figlio suo» (Rom 1,9). Il vocabolo ha una evidente sinonimia con logos/«parola», della quale i primi testimoni sono diventati «servitori»/diákonoi (Lc 1,2), e della quale gli Atti dicono che «cresceva» (At 6,7; 12,24; 19,20), sicché ricevere l’evangelo significa accogliere la «parola di Dio» (Rom 9,6; 1Cor 14,36; Fil 1,14; 1Tes 2,13). Ed è questa parola che va confessata: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e col tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rom 10,9). Paolo gioca sui termini bocca-cuore, riprendendoli da Dt 30,14 («Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica»); essi gli permettono di distinguere e insieme congiungere le due dimensioni della fede, cioè l’appropriazione interna e la proclamazione esterna. Nello stesso tempo, i due termini danno modo all’apostolo di precisare che non è più la legge a trovarsi nella bocca e nel cuore del cristiano, poiché ora essa è sostituita da una confessione/homología cristologica. Tanto nel cuore quanto sulla bocca non c’è più la legge, ma c’è Gesù Cristo, a cui ormai tutte le Scritture fanno riferimento, contrapponendosi tanto alla negazione quanto all’indifferentismo.

La Parola perciò resta centrale e non può essere surrogata da presunti suppletivi moralistici. In effetti, non basta dare il buon esempio di una vita onesta e magari vissuta con l’amore verso gli altri, poiché anche un pagano come Marco Aurelio sostiene che «siamo nati per la cooperazione/synergía» e che perciò «è proprio dell’anima razionale amare il prossimo» e anzi «amare anche quelli che peccano» (Pensieri ii,1; xi,1; VII,22). Bisogna dunque specificare qual è la motivazione del comportamento adottato, e questo è possibile mediante la parola che appunto svela il senso dell’azione, tanto che questa chiarificazione diventa una testimonianza tale da essere essa stessa una forma di evangelizzazione.

In definitiva, un rigoroso e nutriente accostamento al testo sacro può e deve tramutarsi in una forma di servizio, corrispondente a quel «ministero della Parola» di cui parla Luca in At 6,4. Ed è una diakonía dalla doppia dimensione, a seconda che la si intenda come un servizio da rendere alla Parola stessa, la quale sta sempre sopra di noi, oppure nel senso di un genitivo oggettivo in quanto la Parola stessa va servita alla chiesa come si serve un cibo sostanzioso, invece di inefficaci brodaglie. I due significati sono mutuamente e felicemente complementari, come lo stesso Luca dice di quanti sono diventati «fin da principio servitori della Parola». Servendo la Parola, si serve anche la comunità credente nel senso che le si offre un sostentamento davvero tonificante.

Non va comunque dimenticata la mediazione ecclesiale nella comprensione delle Scritture, non solo per la formazione dello stesso canone biblico, ma anche per la ricchezza della variegata interpretazione scritturistica attestata nella tradizione. Sicché, da una parte è vero ciò che dice san Girolamo, secondo cui «ignorare le Scritture significa ignorare Cristo» (pl 24,17). Ma vale altrettanto l’affermazione di sant’Agostino: «Io in verità non crederei all’evangelo, se non mi provocasse l’autorevolezza della chiesa cattolica» (pl 42,176).

È di questi concetti forti che, a ben vedere, ha bisogno la nostra società «liquida» (come la chiama Zigmunt Bauman), la quale rischia di smarrirsi in labirintici super-mercati, in cui c’è solo l’utilitaristico imbarazzo della scelta, o di arenarsi sui banchi di sabbia di litorali aridi. Queste due immagini erano già combinate insieme dal filosofo danese Soeren Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo moderno, quando con un po’ di pessimismo scriveva nel suo Diario: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani»!

Ebbene, proprio l’appropriazione della Parola conferisce invece al cristiano i valori superiori di una rotta sicura e resistente a ogni vento disfattista.
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