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Il perdono nella tradizione ebraica

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di Ariel Di Porto (Rabbino capo della comunità ebraica di Torino)

Nel suo Girasole, Simon Wiesenthal pone una domanda estremamente lacerante: come ci si deve comportare di fronte alla richiesta di perdono di una SS morente?
L’autore scrive: «Io avrei dovuto perdonargli? O potuto perdonargli? E gli altri avrebbero dovuto o potuto farlo? Oggi il mondo ci chiede di perdonare anche a quelli che con il loro atteggiamento continuano a provocarci… è un problema che sopravviverà a tutti i processi, e continuerà a porsi anche quando i delitti dei nazisti già da tempo saranno ormai ricordi di un lontano passato. Per questo lo propongo a uomini che credo abbiano una loro parola da dire… Perché le vicende che lo hanno generato possono ripetersi…. So che molti mi comprenderanno e approveranno il mio comportamento verso la SS morente. Ma so pure che altrettanti mi condanneranno per non aver aiutato un assassino pentito a chiudere gli occhi in pace».

In filosofia morale e in teologia quello del perdono è uno dei concetti fra i più complessi e studiati. La stessa definizione di perdono è oggetto di disputa: alcuni lo considerano un concetto quasi legale, altri ritengono che sia uno stato emozionale per il quale chi è stato offeso rinuncia al proprio risentimento nei confronti di chi ha offeso. Anche il proposito che il perdono persegue è dibattuto: chi perdona vuole riconciliarsi con chi ha offeso a livello personale, o permettergli di entrare nuovamente a far parte della società?

All’interno della concezione del perdono ebraica è possibile individuare tre elementi distintivi, che la differenziano da quella cristiana – secondo la quale non è indispensabile che chi ha offeso si penta e prescinde dalla gravità della colpa – : l’obbligo di perdonare è sottoposto al pentimento e alla richiesta di persona da parte di chi ha compiuto l’offesa; non tutte le colpe possono essere perdonate; non è possibile perdonare a nome di qualcun altro.

Nel Girasole il filosofo Avraham Yehoshua Heschel, rispondendo alla domanda posta da Wiesenthal, narra una storia riguardante il Rebbe di Brisk, studioso famoso e rinomato. Una volta, mentre viaggiava in treno, egli subì un’offesa da una persona chiassosa, che con i propri comportamenti lo sbatté letteralmente fuori dallo scompartimento. Scendendo alla fermata di Brisk, l’incauto passeggero assistette all’accoglienza solenne riservata al grande rabbino. Realizzò in quel momento quale terribile errore aveva commesso e chiese immediatamente perdono per le malefatte; dopo il rifiuto ricevuto da parte del rabbino, arrivò persino a offrire un’ingente somma di denaro per riparare al danno. Il rabbino respinse anche quest’ulteriore tentativo; un atteggiamento a lui estraneo, tanto più che era considerato essere una persona mite e paziente. Il figlio del rabbino, non comprendendo la durezza dell’atteggiamento del padre, ma al contempo non potendolo lì per lì riprendere, si presentò nei giorni successivi da lui in ufficio. Dopo un po’ trovò il coraggio e fece riferimento all’episodio del treno, chiedendo finalmente al padre il perché si fosse mostrato così perseverante nel respingere ogni tentativo di scusa. Il padre rispose allora che quell’uomo in treno non sapeva chi egli fosse, e mancò quindi nei confronti di una persona comune: avrebbe dovuto pertanto chiedere perdono proprio a quella persona comune, e non a lui, rinomato rabbino.

Nella tradizione biblica il pentimento prende le mosse da uno stato interiore al quale deve necessariamente seguire una traduzione nella pratica, composta da due stadi: quello della cessazione del male da una parte, seguito dall’altra da quello di esecuzione del bene. Scrive Rav Riccardo Di Segni a tal proposito: «Il perdono è una riparazione morale dell’identità; è l’acqua che cancella la macchia della colpa e che spegne il fuoco del rancore. Se è unilaterale e gratuito, nel senso che chi ha offeso non fa nulla per ottenere il perdono, questo spegne il fuoco del rancore ma non toglie la macchia. Il perdono, come processo morale, non elimina la necessità della sanzione, che deve servire a riparare il danno procurato, a creare un deterrente nella società e anche ad aiutare il colpevole a riflettere sul male compiuto». È necessario a mio parere avviare una seria riflessione sui dispositivi attualmente in uso e sulla loro efficacia. Nella legislazione che emerge dal testo biblico non troviamo nulla che richiami i metodi in voga nel mondo moderno, che rischiano spesso di compromettere ulteriormente situazioni già difficili di per sé.
La varietà e la frequenza delle espressioni che troviamo nella Bibbia per descrivere il processo di pentimento non possono far altro che indicarci quanto esso sia centrale. Ed è riassumibile nel rapporto con la divinità, in particolare cogliendo la radice ebraica SH-U-V (tornare), dalla quale deriva il termine ebraico che designa il pentimento (teshuvah), che è ritorno a D.

Secondo la tradizione ebraica, il piano divino e quello umano, relativamente al perdono, rimangono nettamente distinti: il perdono divino infatti riguarda unicamente quei peccati che l’uomo compie nei Suoi confronti (ben adam laMaqom); i peccati rivolti verso altri esseri umani (ben adam lachaverò) non vengono perdonati sino a quando colui che è stato offeso abbia perdonato a sua volta. Da qui l’uso di chiedere perdono al proprio prossimo, elemento indispensabile per l’espiazione delle colpe, la vigilia del digiuno del Kippur.

D’altro lato chi è stato offeso non deve essere eccessivamente duro. Infatti «chi si comporta con clemenza nei confronti del proprio prossimo sarà trattato con clemenza dal Cielo; chi non si comporta con clemenza nei confronti del proprio prossimo non sarà trattato con clemenza dal Cielo» (TB Shabbat 151b). Se la parte offesa rifiuta per tre volte in presenza di altri di concedere il perdono, diviene lui il peccatore (Tanchumà Chuqqat 19) ed è chiamato “crudele”. Inoltre questo atteggiamento non è considerato degno di un discendente di Abramo (TB Betzah 32b), poiché questa è una delle caratteristiche che distinguono Abramo e la sua stirpe (Bemidbar Rabbà 8,4; Rambam, Hilkhot teshuvah 2,10).
La Shoah ha accentuato con forza la discussione riguardo la posizione ebraica rispetto al perdono, trattandosi di un caso limite, caratterizzato da crimini tanto gravi e efferati da considerare l’eventualità che vi sia una proibizione morale a perdonare. Vi sono due ordini di ragioni per non perdonare: una di ordine metafisico, per cui non è possibile perdonare; e una di ordine morale, per cui non dovremmo perdonare. Solo chi ha subito un’offesa può perdonare, e la maggior parte delle vittime sono morte. Il perdono operato da terzi non può sostituire quello delle vittime.

In questo caso vi è una ulteriore difficoltà, collegata al fatto che, secondo la definizione di Hannah Arendt, i nazisti hanno commesso «un crimine contro l’umanità sul corpo degli ebrei»: la Shoah è un crimine troppo grande per essere perdonato, i cui esecutori hanno superato abbondantemente il limite della “perdonabilità”. Un’altra obiezione dipende dall’assenza di pentimento da parte dei criminali. Emmanuel Levinas, la cui biografia è dominata dal ricordo dell’abominio nazista, scrive:

La responsabilità dell’uomo verso l’uomo è tale che D. non può annullarla. Ecco, secondo il commento rabbinico, il dialogo fra D. e Caino: Sono il guardiano di mio fratello? Non è una domanda semplicemente insolente. Essa proviene da colui che non ha ancora sentito la solidarietà umana e che pensa […] che ciascuno esista per sé e che tutto è permesso. Ma D. rivela all’omicida che il suo crimine ha sovvertito l’ordine naturale. La Bibbia mette allora in bocca a Caino una parola di sottomissione: “Il mio crimine è troppo grande per essere sopportato”. I rabbini fingono di leggere in questa risposta una nuova domanda: “il mio crimine è troppo grande per essere sopportato?”. È troppo pesante per il Creatore che porta la terra e i cieli? […] Come è possibile? L’Eterno non ha forse cancellato il peccato del vitello d’oro? E il maestro risponde: “la colpa commessa verso D. ha a che fare con il perdono divino, la colpa che offende l’uomo non ha a che fare con D.”. […] Il male non è un principio mistico che si può cancellare con un rito: è un’offesa che l’uomo fa all’uomo. Nessuno, nemmeno D., può sostituirsi alla vittima. Il mondo in cui il perdono è onnipotente diviene inumano.
(Emmanuel Lévinas, Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004)

Ciò che dobbiamo cercare di fare pertanto, partendo dalla nostra vita ordinaria, è anzitutto coltivare la nostra umanità, pro-muovendo, in ogni manifestazione della nostra esistenza, quella solidarietà umana che è alla base di ogni società sana.
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