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Guardare all'uomo con gli occhi di Dio

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Un dialogo tra padre Sorge e Aldo Maria Valli

Nel numero di novembre di Aggiornamenti Sociali padre Bartolomeo Sorge, direttore emerito della rivista, esamina - confutandole - alcune autorevoli critiche rivolte a papa Francesco dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia (leggi una sintesi dell'articolo o scarica l'articolo integrale).
In particolare il gesuita si sofferma sulle obiezioni mosse dal filosofo tedesco Robert Spaemann e dal giornalista e scrittore Aldo Maria Valli. Qualche giorno fa lo stesso Valli ha risposto a padre Sorge nel suo blog: nel desiderio di dare visibilità a un dialogo che, pur nella diversità delle posizioni, ci pare costruttivo e fecondo, pubblichiamo il testo di Valli, seguito da una replica di padre Sorge.

Amoris Laetitia, la legge, la libertà: risposta al padre Sorge

Nell’ultimo numero di «Aggiornamenti sociali» (n. 11, novembre 2016), storica rivista dei gesuiti, il padre Bartolomeo Sorge, che della rivista è direttore emerito, pubblica un articolo, intitolato «A proposito di alcune critiche recenti a papa Francesco» nel quale si occupa di «critiche, piuttosto serie, venute specialmente dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia» e si propone di confutarle. Precisato che fra tali critiche ce ne sono alcune preconcette mentre altre, che «vengono da persone illuminate e fedeli», sono «fatte senza arroganza, e lasciano trapelare un’evidente o malcelata contrarietà», il padre Sorge sceglie, come esemplificativi della seconda categoria, i casi del professor Robert Spaemann, «uno dei maggiori filosofi e teologi cattolici tedeschi», e del sottoscritto, «giornalista cattolico, apprezzato vaticanista del Tg1».

Beh, grazie, caro padre! Devo dire che mai mi sarei aspettato di meritare la sua attenzione, e ancor meno di essere accostato, sotto il titolo «Due voci critiche qualificate», a un pensatore del calibro del professor Spaemann.
Comunque, eccomi al tema: sia nel caso di Spaemann (secondo il quale Amoris laetitia costituisce una palese frattura con il precedente magistero della Chiesa) sia nel mio articolo «La Chiesa e la logica del “ma anche”» (28 maggio 2016, in www.aldomariavalli.it) secondo Sorge siamo di fronte a «tensioni che interpellano il servizio apostolico del nostro tempo». Quali sono? Eccole: «Quelle tra dottrina e pastorale, tra coscienza soggettiva e obiettività della legge e tra misericordia e giustizia».

In sintesi, secondo il padre Sorge papa Francesco sta seguendo la strada giusta quando sostiene che la dottrina non deve e non può mai essere fredda e distante, perfetta in se stessa ma lontana dalla realtà delle persone, perché deve avere una natura e una finalità pastorale. Sta seguendo la strada giusta anche quando raccomanda che le persone non siano rese schiave da una legge che, nella sua pretesa obiettività, non sa fare i conti con le situazioni soggettive, e infine ha ragione quando ricorda che la misericordia non è contraria alla giustizia, non è buonismo o sentimentalismo, ma è un andare oltre la giustizia con il perdono. Secondo il padre Sorge, «alla luce del realismo di Dio», Francesco è a sua volta realista quando chiede che «si prenda atto della molteplicità dei condizionamenti» a cui l’uomo di oggi è sottoposto.

Capisco bene lo sforzo di Francesco, e di pastori come il padre Sorge, di calare il Vangelo nella realtà dell’uomo del nostro tempo. Tuttavia ritengo che lungo questa via, a forza di prendere in considerazione i condizionamenti a cui l’uomo è sottoposto, si finisca con l’operare un ribaltamento: anziché aiutare l’uomo a mettersi in ascolto di Dio, c’è il rischio di porre Dio alle dipendenze dell’uomo e delle sue giravolte. Il che rende l’uomo non più libero, ma più schiavo.

La dottrina stessa, oltre che la pastorale, può essere piegata a questo ribaltamento. Succede ogni volta che, con il proposito di andare un po’ «incontro all’uomo», viene ammorbidita o, per dirla con Francesco, resa meno fredda. Ma qual è il prezzo di questa operazione? È che non si sa più di che cosa si sta parlando. La dottrina perde la sua chiarezza e la Verità si offusca. E in questo modo l’uomo non diventa più libero di scegliere o non scegliere la Verità. Diventa solo più confuso. E quindi meno libero. Come spiega Spaemann, scegliere senza sapere bene di che cosa si sta parlando non è un aiuto per l’uomo: è la forma più estrema di mancanza di libertà.

Quando, come a tratti succede in Amoris laetitia, emerge la tendenza non a mettere al centro Dio e la sua Verità oggettiva, ma l’uomo con le sue esigenze e i condizionamenti a cui è sottoposto, non si aiuta l’uomo a essere più libero: lo si illude di esserlo. Quando, come pure vediamo a tratti in «Amoris laetitia», viene spiegato che l’importante non è tanto il contenuto della norma, quanto il modo in cui una determinata situazione è vissuta, in coscienza, dall’individuo, rischiamo di lasciare campo aperto al dilagare del soggettivismo e del relativismo. Non abbiamo più l’uomo in ascolto di Dio, perché consapevole che Dio è Verità e che tale Verità è oggettivamente buona, ma abbiamo Dio adattato alla soggettività umana. Non abbiamo più i diritti di Dio e i doveri dell’uomo, ma i diritti dell’uomo e i doveri di Dio. Ebbene, dirà qualcuno, dov’è il problema? Il problema è che questa non è la strada della liberazione, ma la strada della schiavitù: l’uomo schiavo di se stesso.

Il dramma della modernità è tutto in questo ribaltamento, che è penetrato anche nella Chiesa e in base al quale l’uomo diventa l’idolo di se stesso. E così si condanna alla schiavitù e quindi, alla fin fine, all’infelicità. Quando non c’è più la libertà di seguire il vero bene, ma solo la libertà di interpretare la Verità di Dio a seconda dei propri bisogni e di ciò che è bene in base a una valutazione soggettiva, semplicemente non c’è alcuna libertà. E se non c’è la libertà c’è la schiavitù. E se c’è la schiavitù non c’è la felicità.

Stupisce che uomini di Dio mostrino la tendenza a considerare la legge, nella sua oggettività e chiarezza, quasi come un ostacolo sulla strada che porta a Dio, quando invece la legge oggettiva e chiara è l’unico strumento che permette la scelta responsabile e quindi l’autentica libertà e quindi la felicità.

Tutti gli attacchi di questi giorni contro il padre Giovanni Cavalcoli, che a Radio Maria ha osato accennare al castigo divino come conseguenza del peccato originale, nascono in buona parte dalla difficoltà, ormai manifesta anche fra tanti buoni credenti, di rapportarsi a Dio in quanto legislatore. Colpa e castigo sono categorie troppo nette. Non ci siamo più abituati. Ci sentiamo più a nostro agio nel giustificazionismo, dove tutto è vago e indeterminato, dove non si sa bene quale sia lo spazio della responsabilità. Non ci stiamo costruendo un Dio misericordioso e che perdona, ma un Dio comprensivo e che giustifica. Sono due cose diverse.

Come ho già ricordato, il mio articolo citato dal padre Sorge si intitola «La Chiesa e la logica del “ma anche”». E che cosa scrive a un certo punto l’amico Sorge? Scrive così: «Va tenuta presente non solo l’obiettività della legge, ma anche la complessità delle situazioni». Eccolo lì il «ma anche», cavallo di Troia del relativismo. Cioè della confusione. Cioè della mancanza di libertà. Cioè dell’infelicità (anche se camuffata da libertà e felicità).
L’articolo del padre Sorge si conclude così: «In sostanza, il modo in cui sono vissute queste tensioni e le posizioni critiche assunte al riguardo rivelano le resistenze o le difficoltà di comprendere l’invito di papa Bergoglio a una “Chiesa in uscita”, preferendo rimanere ancorati alle certezze tradizionali, ben custodie dalle vecchie e solide “mura del tempio”».

A parte il fatto che l’espressione «Chiesa in uscita» mi sembra a sua volta generica e indeterminata, voglio dire all’amico padre Sorge che ho afferrato il messaggio in codice. «Oltre le mura del tempio» è il titolo di un libro che abbiamo scritto insieme nel 2012. Ma non mi sento in contraddizione. Resto convinto che la testimonianza, specialmente da parte del laico credente, vada portata ovunque, ben oltre le mura del tempio. Ma quale testimonianza? Di un Dio genericamente comprensivo o di un Dio autenticamente misericordioso? Di un Dio che cancella la colpa dell’uomo o di un Dio che la assume in Gesù, suo mediatore e mio redentore? Di un Dio che mi offre una consolazione superficiale o di un Dio che mi libera dal peccato? Di un Dio che si è fatto uomo o di un uomo che vuole farsi Dio?



Aldo Maria Valli, rispondendo al mio articolo apparso nel numero di novembre 2016 di Aggiornamenti Sociali, ribadisce ovviamente la sua tesi. Dalla sua risposta traspare chiaramente dove sta la differenza tra la sua visione e quella di papa Francesco. Si tratta, infatti, di due angolature diverse, non per questo in contraddizione tra di loro.
Valli si preoccupa di "aiutare l'uomo a mettersi in ascolto di Dio". Ottima preoccupazione, la sua, quella cioè di guardare a Dio con gli occhi dell'uomo (più propria dell'Antico Testamento).
Papa Francesco si preoccupa piuttosto di guardare all'uomo con gli occhi di Dio (più propria della rivelazione del Nuovo Testamento). Non si tratta, quindi, di fare diventare l'uomo "idolo di se stesso", né di "interpretare la verità di Dio a seconda dei propri bisogni e di ciò che è bene in base a una valutazione soggettiva", ma di comprendere il "realismo" con cui Dio, infinitamente misericordioso, guarda l'uomo nella sua fragilità. Ovviamente, lo sguardo misericordioso di Dio verso l'uomo non toglie nulla all'impegno (al dovere) dell'uomo di accogliere la Parola di Dio e di osservare i suoi comandamenti!
Bartolomeo Sorge SJ

16 novembre 2016
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