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Enzo Bianchi "Quando e dove vuole il Patriarca"

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La Repubblica, 7 febbraio 2016
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose

“Al patriarca Kyrill ho fatto sapere: “Io vengo. Tu mi chiami e io vengo, dove vuoi, quando vuoi!”.
Così papa Francesco il 24 novembre scorso dichiarava ai giornalisti durante il volo che lo riportava a Roma da Istanbul. Ma lo ripeteva da tempo a chi gli chiedeva della possibilità di un suo incontro con il patriarca Kyrill. Il “quando” sarà venerdì prossimo, 12 febbraio; il “dove” di questo incontro atteso da decenni, il primo nella storia tra un papa di Roma e il patriarca di Mosca e di tutta la Russia, sarà Cuba. Non il caso, non le coincidenze, ma il paziente lavoro di tante persone, le preghiere di molti fedeli, la risoluta volontà dei due primati e le circostanze storiche hanno fatto sì che questo abbraccio avvenisse non in Europa, non di fronte alle folle ortodosse o cattoliche mosse dallo straordinario evento, ma nell’isola caraibica, in un aeroporto, luogo laico per eccellenza, agorà dell’era contemporanea, spazio evocativo di viaggi, di arrivi e di partenze, dove le persone si incrociano ma non si conoscono, ma anche luogo simbolico di decolli verso nuovi orizzonti e prospettive. Quella disponibilità palesata dalla presenza di osservatori del patriarcato di Mosca al concilio Vaticano II, quell’auspicio portato a Roma dal metropolita Nikodim morto tra le braccia di Giovanni Paolo I, quell’anelito coltivato da una parte e dall’altra dell’ex-cortina di ferro in modo particolarmente intenso dopo la caduta del regime sovietico, quel desiderio alimentato dagli sforzi di Giovanni Paolo II e dalla sapienza di Benedetto XVI è oggi una realtà, al contempo frutto di anni laboriosi e germe di messe ancora più abbondanti.

Giovanni Paolo II aveva sognato il viaggio a Mosca e furono compiuti tentativi significativi, ma sempre ci si era confrontati con il diniego la chiesa ortodossa russa che ripeteva: “i tempi non sono ancora maturi”: di fatto, la memoria dei conflitti patriottico-religiosi tra Polonia cattolica e Russia ortodossa e la difesa degli uniati greco-cattolici in Ucraina da parte di un papa polacco non dissipavano la diffidenza. Si era progettato un incontro al monastero benedettino di Pannonhalma in Ungheria, poi in Austria, qualcuno aveva ventilato l’incontro attorno alla Sindone a Torino… ma di fatto nessuna ipotesi era risultata praticabile.

Che cosa, allora, ha accelerato questo incontro, preparato con discrezione da mesi, ma annunciato all’ultimo momento? Chi segue fin dall’inizio l’intensificarsi dei rapporti tra Roma e Mosca, chi conosce cosa anima semplici scambi di cortesie o messaggi apparentemente rituali di vicinanza e fraternità, può pesare la portata di questo incontro al di là di ogni calcolo geo-religioso o di realpolitik. È un incontro che è frutto sì di sapiente tessitura diplomatica, ma prima e più ancora di una consapevolezza condivisa: i cristiani devono rendere conto delle loro divisioni e degli sforzi per superarle non a un’istanza internazionale, ma alla precisa volontà del loro unico Signore. Le ricadute concrete anche al di fuori dello spazio ecclesiale ci saranno, senz’altro, ed estremamente significative, ma più decisive ancora saranno le conseguenze sul piano del dialogo ecumenico e della ricerca dell’unità dei cristiani.

Non si parlerà di problemi teologici – per questo c’è da anni la commissione mista cattolico-ortodossa, e nessuna singola chiesa ortodossa è abilitata a dialoghi teologici bilaterali – ma soprattutto dei problemi carichi di sofferenza dei cattolici e degli ortodossi in Ucraina e dei cristiani perseguitati in medio oriente che chiedono solidarietà e aiuto. È significativo, comunque, che la chiesa greco-cattolica in Ucraina abbia adottato solo ora, dopo ventidue anni, ciò che era stato siglato tra cattolici e ortodossi a Balamand nel 1993: “il rifiuto dell’uniatismo come metodo di ricerca dell’unità perché opposto alla tradizione comune delle nostre chiese”.

Anche il metropolita Hilarion nel presentare l’evento ha ricordato che motivi di tensione permangono, soprattutto nell’intricata questione ucraina, così come spinte alla solidarietà si fanno urgenti nei paesi dove i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione, sono vittime di soprusi, violenze e persecuzioni. Ma nell’ottica cristiana, il principale fattore di avvicinamento non sono le avversità che sorgono dentro o fuori lo spazio ecclesiale, né le opportunità strategiche di ipotetiche sante alleanze, bensì la volontà di ristabilire quella comunione fraterna che è il segno grande che caratterizza i discepoli di Cristo. Una concordia non “contro”, non in opposizione a nemici esterni, ma frutto di una comune conversione al Signore della pace e dell’unità. I cristiani non perseguono l’unità perché conviene loro così da essere molto più numerosi, più forti in modo da contare maggiormente tra i potenti di questo mondo: la perseguono perché è la precisa volontà di di Gesù stesso, secondo i vangeli l’ultimo precetto da lui affidato ai suoi discepoli.

È facile immaginare che questo incontro avrà un peso ragguardevole anche sui lavori del prossimo sinodo panortodosso: non perché foriero di qualsivoglia ingerenza del vescovo di Roma nelle questioni interne al cristianesimo d’oriente, ma perché capace di favorire un clima di dialogo e di reciproca comprensione anche all’interno della stessa ortodossia. Non a caso, il primo a rallegrarsi di questo annuncio è stato proprio il patriarca ecumenico Bartholomeos. La schietta cordialità di rapporti da subito instauratasi tra Francesco e Bartholomeos – il primus inter pares dell’ortodossia – potrà ora caratterizzare anche le relazioni con il primate della chiesa ortodossa con il maggior numero di fedeli. Una volta che due sguardi si incrociano e due cuori si parlano, infatti, è difficile che il gelo e la distanza tornino a far sentire la loro morsa.

Che poi questo incontro avvenga a Cuba – isola un tempo simbolo della guerra fredda che stava per trasformarsi in conflitto nucleare, se non fosse stato per l’audace e profetico intervento di un altro papa, Giovanni XXIII – là dove pochi mesi or sono, con il contributo decisivo di papa Francesco, è caduto un altro muro simbolico, è uno di quei segni dei tempi che è doveroso cogliere: come sarebbe stato possibile proseguire nel diniego di un abbraccio tra fratelli nella stessa fede quando persino agguerriti nemici storici decidono di riprendere a parlarsi? Lì, nell’aeroporto di quell’isola si manifesterà l’efficacia della convinzione di papa Francesco, che possiamo definire santamente testarda: tra fratelli cristiani non si può non incontrarsi. Memore delle parole di Gesù – “Se uno ti chiede di fare un miglio, tu fanne con lui due” (Mt 5,41) – Francesco non ha chiesto che il patriarca si muovesse verso di lui a Roma – come hanno già fatto tutti gli altri patriarchi – non ha chiesto di andare in Russia, suscitando magari la sensazione di trionfo sull’antico nemico sovietico scomparso, ma ha detto: Dove il patriarca vuole, quando vuole, come vuole. Un’autentica obbedienza al vangelo e nient’altro.
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