Gianfranco Ravasi “Il Giubileo di Gesù”
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Per la prima volta Gesù entra in quel tempo di Gerusalemme che da ragazzo dodicenne e da adulto frequenterà a più riprese. Ora è un neonato tra le braccia di sua mamma che lo presenta al Signore, durante il rito della purificazione imposta alla madre secondo la legge di Mosè (Levitico 12,2-4). Là il piccolo troverà l’abbraccio di una sorta di nonni adottivi, l’anziano Simeone e l’ottantaquattrenne Anna (Luca 2,22- 38). È l’evento che viene commemorato nella liturgia di questa domenica.
Subito dopo, la famiglia di Gesù ritorna nel suo villaggio sulle colline della Galilea, Nazaret. «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza» (Luca 2,40) e diventava, anno dopo anno, un adulto, pronto a lasciare la sua casa per adempiere alla missione di annunciatore del Regno di Dio in parole e opere. Un giorno, però, ritorna nel suo paese, ed essendo un sabato, si reca nella modesta sinagoga di Nazaret, ove tiene la sua prima predica brevissima, affidata quasi integralmente a un brano del libro del profeta Isaia (61, 1-2), secondo quanto ci narra l’evangelista Luca (4, 16-21).
Egli vuole «proclamare l’anno di grazia del Signore»: è, in pratica, l’annuncio di un Giubileo che egli è venuto a proporre sulla scorta delle parole di Isaia. Quattro sono gli impegni da assumere. Il primo è «evangelizzare i poveri»: il verbo greco usato da Luca per tradurre l’originale ebraico del profeta citato è proprio quello che ha alla base la parola “evangelo”, la “buona novella”, il “lieto annuncio” del Regno di Dio. Destinatari sono i “poveri”, gli ultimi della società, privi della forza del potere politico ed economico, ma col cuore aperto alla fiducia nel Signore. Sono loro i primi attori del Giubileo, che dipendono esternamente e interiormente dalle mani di Dio e dei fratelli.
La libertà è il secondo atto giubilare, con riferimento esplicito ai prigionieri. In un’altra occasione Cristo stesso si identificherà con loro: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi» (Matteo 25,36). È facile pensare allo scandalo delle nostre carceri, ove sono recluse persone in condizioni così disumane da preferire talora il suicidio a una vita umiliante, oppure evocare le torture cui sono sottoposti i prigionieri di guerra.
Il terzo impegno è ridare «la vista ai ciechi», un gesto che Gesù ha spesso compiuto, essendo questa una sindrome diffusa nel Vicino Oriente. Secondo la Bibbia e la tradizione giudaica era un atto che segnava la venuta del Messia. La cecità, dura da vivere a livello fisico, era però anche un simbolo dell’ostinazione nel male e dell’incapacità di vedere in profondità e con gli occhi del cuore e dell’anima. Quarto e ultimo impegno è la liberazione degli oppressi, non solo sotto il tallone delle dittature e delle schiavitù ma anche da tutte le sofferenze e degenerazioni che attanagliano il corpo e lo spirito.