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Il cardinale Matteo Zuppi: «Cambiamo il mondo»

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Questo articolo è pubblicato sul numero 30/31 di Vanity Fair in edicola fino al 16 agosto 2022
 

Matteo Zuppi potrebbe essere uno di quei preti nei girotondi delle fotografie di Mario Giacomelli. Alto, magro, movimenti veloci, la tonaca nera che svolazza mentre lui si affretta a chiedere: «Che ce lo abbiamo il quarto d’ora accademico?». Perché c’è sempre qualcuno che deve incontrare, vedere, ascoltare. E potresti scambiarlo per un «don Matteo» qualunque, se non fosse uno dei personaggi chiave della Chiesa di Papa Francesco – da poco più di due mesi è il presidente della Cei, da due anni e mezzo cardinale, da sette arcivescovo di Bologna, dove vive felice, amando la città ed essendone riamato. Ogni giorno dice messa a San Petronio, perché ha scelto di non fare celebrazioni private. Non usa i social (a parte Whatsapp) perché «non è il mio modo», ma «so che hanno fatto una pagina Facebook dove mi prendono bonariamente per i fondelli». La pagina, da seimila seguaci, si chiama «Zuppi che fa cose» e fa il verso alla stampa, che da quando è diventato vescovo, nel 2012, lo esalta qualsiasi cosa faccia.  

Le piace la definizione: «un prete di strada che diventa presidente della Cei»? 
«No, perché è una banalizzazione e, come tale, sempre pericolosa. È tutto molto più complesso». 

Allora partiamo dall’inizio. Famiglia numerosa, la sua. 
«Eravamo cinque fratelli e ognuno diverso dall’altro. Abbiamo una sola sorella, una tenerissima vice-mamma essendo la seconda, il luogotenente del “generale”…». 

Sua madre? 
«E certo! Per forza! Fumagalli, brianzola, di Seveso, aveva l’arte del comando. Con facilità, penso, riusciva a gestirci». 

Siete ancora uniti, oggi? 
«Abbiamo rapporti molto profondi anche se non continui, del resto il senso dell’essere fratelli non sta solo nella frequentazione. Non siamo mai riusciti a litigare davvero, nemmeno quando c’è stata la divisione delle cose del “generale”, quando è morta. Del resto aveva dato sagge istruzioni nel testamento». 

Quali? 
«“Ricordatevi che quando ci siamo sposati non avevamo niente: tutto questo è il frutto del lavoro di vostro padre e dell’aiuto di vostra madre”. Post Scriptum: “Vedetevi solo tra fratelli, senza mariti e mogli varie”». 

I suoi fratelli si sono tutti sposati, ha nipoti? 
«Sì, certo. Abbiamo di tutto: sposati, divorziati… Il “generale” non voleva in casa quelle che chiamava “le concubine”, ma c’erano dei Natali che erano un po’ tristi, con i miei fratelli che arrivavano scompagnati. Alla fine abbiamo proposto una sanatoria». 

Ricorda quando ha detto al «generale» che voleva farsi prete? 
«Che uno dei figli facesse il prete era motivo, da una parte, di felicità, dall’altra, di grande preoccupazione: non ero della tipologia tradizionale. Ricordo che alla mia prima messa, a 26 anni, vennero tutti i miei parenti a Santa Maria Maggiore. Ma io, dopo la messa e gli auguri per l’ordinazione, scappai e andai a Primavalle». 

«Scappai»? 
«Sì, perché forse sarei dovuto stare più con loro, ma per una certa radicalità dell’epoca non concessi molto: avevo fretta di andare in periferia, a celebrare la “seconda prima messa” in una cappellina in uno scantinato». 

Perché è entrato in seminario solo dopo la laurea? 
«Mi dico sempre che ho fatto tre seminari, essendo un po’ zuccone. Il primo è stato in casa. Mamma e papà erano molto credenti, lui legato a un’esperienza di laicato impegnato. La sua tesi di laurea, per esempio, era sui primi scout, un movimento che, negli anni ’30, aveva un modo diverso di approcciarsi ai ragazzi, che combaciava perfettamente con la visione del “generale”: si lavora e non si perde tempo. A casa nostra a una cert’ora si diceva il rosario: e non è che noi bambini fossimo felici di smettere di giocare per recitarlo». 

Secondo seminario? 
«La comunità di Sant’Egidio, dove mi sono formato e ho conosciuto il Vangelo ereditato in casa, ma vivo, come la preghiera insieme ai miei coetanei, al liceo. Poi c’è stato il terzo seminario, in senso stretto». 

Era l’inizio degli anni ’70, che ragazzo era? 
«Ho iniziato il liceo il 1° ottobre 1968. All’epoca, come per i gruppi extraparlamentari, l’adesione, il coinvolgimento in una comunità erano cose fortissime. Era un momento di ricerca, dovevamo cambiare il mondo, l’essere giovane aveva un senso e una responsabilità precisi». 

È ancora in contatto con i suoi compagni del liceo? 
«Sì, ci vediamo ancora una volta all’anno. Ed è interessante, perché tutte le volte scatta una confidenza immediata, non c’è reverenza, fa bene, è un bagno di realtà. Adesso sono tutti pensionati, alcuni fissati con i nipoti». 

Lei non ha mai pensato di mettere su una famiglia? 
«Direi di sì, perché avevo l’esempio del matrimonio di mamma e papà, mentre la mia generazione era quella in cui nelle famiglie c’erano già tante difficoltà. Io tuttavia volevo una famiglia più grande, l’idea della comunità era quella. Senza quel gruppo forse non sarei diventato prete». 

Con Sant’Egidio nel 1992 è stato mediatore per la pace in Mozambico. È lontana la pace in Ucraina? 
«La pace non è mai scontata. Ma tutti possono e devono fare la propria parte perché l’unica via per risolvere i conflitti è lavorare per rimuovere i semi di divisione, di odio, di pregiudizio, di ignoranza che sono terreno per la cultura della violenza, perché la giustificano. Solo il dialogo può neutralizzare l’odio. Speriamo che i fili di dialogo che hanno portato all’accordo sul grano crescano e che l’Onu possa aprire altri spazi di incontro».  

Negli ultimi dieci anni è diventato vescovo, arcivescovo e cardinale creato da Papa Francesco. Si ricorda il suo primo incontro con lui? 
«Fu tanti anni fa per la presentazione di un libro a Buenos Aires, dove si scusò tantissimo perché arrivò leggermente in ritardo a causa del “subte”, la metropolitana!». 

Che cosa la colpisce del Santo Padre? 
«L’immediatezza. Guarda negli occhi, ascolta, ha una sorprendente memoria “affettiva”, cioè ricorda quello che trasmette sentimento. Si fa toccare da quello che ascolta». 

Non è ancora riuscito a incontrare, invece, Mario Draghi, il cui governo nel frattempo è caduto. Si è bloccato anche lo ius scholae, su cui la Cei si era detta a favore. 
«Ci sono certi temi di interesse nazionale. Sono in gioco i diritti fondamentali delle persone e quindi i doveri. Le soluzioni si trovano con consapevolezza e sguardo aperto al futuro, non segnati da pregiudizio e paura. La cittadinanza ai bambini che hanno frequentato le classi delle nostre scuole permette di legarli al nostro Paese, renderli “nostri”, offrire l’orgoglio di essere italiani e forse riscoprirlo anche noi. Lo ius scholae rappresenta un passo per uscire dall’approccio emergenziale e assistenziale e cominciare – ritardo medio quarant’anni – ad affrontare il fenomeno migratorio in modo strutturale». 

La campagna elettorale ritira fuori questi temi. Che cosa risponde a chi dice: «Prenditelo tu in casa il migrante»? 
«Che non conosce l’accoglienza che è tipica dell’Italia. In campagna si dice: “Siamo in dieci, segna altri due che siamo in dodici”. La solidarietà è qualcosa che fa parte della nostra vera tradizione». 

Si vota il 25 settembre: lei che è un figlio del ’68 che cosa direbbe ai giovani, per convincerli a votare? 
«Per Paolo VI la politica è la più alta forma di carità. Per molti, e soprattutto per i giovani, invece, la parola ha assunto una connotazione negativa, che rimanda a giochi di potere, a interessi personali, alla corruzione. Ma la disillusione e la rabbia possono indurre a credere che siano reali le soluzioni urlate, facili, a qualsiasi prezzo. Il mondo va cambiato e farlo non solo è bello ma è indispensabile, oltreché possibile. Sarò un inguaribile “ragazzo”, ormai vecchio, ma questo sogno non l’ho perduto. E mi si ripresenta ogni volta che ascolto il Vangelo e con i sentimenti di Gesù guardo il mondo e le tante sofferenze dei più piccoli. Come si fa a lasciarle così?».  

A proposito di sofferenze, per la prima volta nella storia, la sua Cei ha avviato un’indagine indipendente sulla pedofilia all’interno della Chiesa negli ultimi 20 anni. 
«È una delle tante cose che stiamo facendo. Vogliamo che i fatti emergano e siano esaminati con criteri scientifici». 

Rivoluzionaria è stata definita anche la sua apertura verso la comunità Lgbtq+, e verso tutte le famiglie non «regolari» per la Chiesa, che l’Istat ci dice sempre più numerose: coppie di fatto con o senza figli, famiglie allargate, unioni civili. 
«La mia non è una posizione diversa da quella della Chiesa, che è quella dell’accompagnare e dell’accogliere già indicata da Benedetto XVI, e che ha ribadito Papa Francesco più esplicitamente. Come racconta il Vangelo, Gesù si lascia avvicinare da una “peccatrice” e non la giudica. A ben vedere si arrabbia solo con i religiosi o quelli che si approfittano di Dio, mentre va a casa dei pubblicani e dei peccatori. Ci ha liberato da tutti i pregiudizi… E noi no?». 

La Cei però ha espresso una posizione contraria al ddl Zan. Molte persone omosessuali e cattoliche si chiedono fino a che punto siano accolte dalla Chiesa. 
«L’accoglienza non ha una scadenza o un tempo, finché “righi dritto”. Se sei figlio, sei figlio. Se sei fratello, sei fratello, questa è sempre casa tua. Poi posso non essere d’accordo, posso essere per niente d’accordo. All’interno della Chiesa del ddl Zan si è discusso moltissimo. Per esempio: la maternità surrogata è un problema? Sì, è un problema. Ma se mi chiedi di fare un battesimo a un bambino nato così ti rispondo: certo! Lo faccio. L’ho fatto». 

A Welby fu negato il funerale. Se una persona morisse con il suicidio assistito, lei ne celebrerebbe le esequie? 
«Sì. Devo però chiarire un punto: la Chiesa non ammette l’eutanasia, ma chiede l’applicazione delle cure palliative. Si resta fino all’ultimo accanto all’amato, facendo di tutto per togliere la sofferenza del corpo e dello spirito, quindi senza alcun accanimento, ma difendendo sempre la dignità della persona. La complessità richiede intelligenza, misericordia e amore per capire le vicende della vita». 

Perché ha detto: «Siamo tutti ripetenti in amore»? 
«Ammazza! Guardi me! E poi si ridiventa analfabeti di ritorno, quando si pratica troppo l’amore per sé e per niente quello per gli altri. Davvero non smettiamo mai d’impararlo, l’amore, non capiamo mai che si trasforma e ha una forza tremenda. Una delle cose più tenere sono le feste per il cinquantesimo di matrimonio. Quanto amore, potente, umanissimo, molto diverso da quello dell’inizio, ne è un distillato, meno mischiato ad altro. E poi siamo ripetenti perché siamo un po’ tonti: c’è il peccato, frutto del male che banalizza, rende insipido, sciupa l’amore».
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